CURIOSITà
La dieta cistercense.
di Camilla Baresani
I giornali, che ormai dedicano uno spazio considerevole al tema della salute, della longevity, del dimagrimento, ci informano periodicamente riguardo a nuove diete salva-giro vita. I nomi vanno da quello dell’inventore (Atkins, Dukan, Plank) a quello della tecnica (dieta dissociata, digiuno intermittente, detox), a quello di un alimento di cui nutrirsi in via esclusiva (avocado, ananas, uova). Ci sono poi le diete ispirate a uno stile di vita: mediterranea, crudista, paleo… E via elencando. Curiosamente nessuno ha ancora pensato a lanciare la dieta cistercense. Eppure, è praticata da un millennio e ha sostentato e tenuto snelli e in salute monaci, conversi e pellegrini nelle abbazie ispirate alla regola di San Bernardo di Chiaravalle. Regola ancor più rigida di quella benedettina, anche dal punto di vista alimentare.
Se nella disciplina monastica di San Benedetto – ora et labora – il lavoro dei monaci cluniacensi era principalmente quello della trascrizione e copiatura dei codici, nella variante cistercense, quella di San Bernardo, il lavoro diventa quello dei campi, che per giunta otteneva il risultato di creare senso di comunità con i conversi che partecipavano alle attività agricole, insieme a coloni, mezzadri e affittuari. I conversi erano dei laici residenti nelle abbazie. In cambio della protezione e del sostentamento aderivano alla regola di povertà e castità lavorando nelle grange, ossia nelle fattorie che dipendevano dalle abbazie. Le abbazie cistercensi fondate da Bernardo furono di fatto le prime grandi aziende agricole della storia economica europea, e nel corso dei secoli contribuirono a dissodare, coltivare, allevare e inventare nuove tecniche, dando un fondamentale contributo al benessere alimentare delle popolazioni limitrofe. Nell’arco di un solo secolo, partendo all’incirca dall’anno Mille, il sistema di lavoro adottato dalle abbazie portò non solo all’autosufficienza alimentare ma a creare eccedenze, e dunque commercio e diffusione di prodotti delle aziende agricole. Vino, birra, latte, formaggi, verdure e frutta, e poi anche prodotti officinali, balsami, saponi, tisane, infusi: ancora oggi moltissimi prodotti che consumiamo sono di origine monastica, un’origine che per il consumatore suona come marchio di qualità.
La regola di Benedetto disciplinava rigidamente la vita monastica riguardo agli orari di lavoro, di preghiera, al riposo, al silenzio, e anche all’alimentazione che doveva essere frugale. Due pasti al giorno per un regime alimentare sostanzialmente vegetariano, che prevedeva solo un saltuario consumo di carne (o pesce pescato nelle rogge) per rimettere in forza i malati e per sostentare chi svolgeva i lavori più pesanti. “Mi astengo dalla carne, perché alimentando eccessivamente il corpo nutro anche i desideri carnali; mi sforzo anche di prendere il mio pane con moderazione, perché uno stomaco pesante non mi impedisca di stare diritto in piedi nella preghiera” scrisse Bernardo in un sermone sul Cantico dei Cantici. E dunque verdure, radici, legumi, uova, burro, frutta. E vino o birra “secondo necessità per cacciare il freddo”. Vino e birra erano moderatamente concessi anche perché più salubri dell’acqua (che spesso proveniva da pozzi non sufficientemente profondi) e perché nei giorni in cui era prescritto il digiuno fornivano un moderato apporto calorico, utile a continuare il lavoro agricolo.
Quando i monasteri cominciarono a produrre eccedenze, i monaci divennero man mano esperti delle tecniche di conservazione del cibo, utili a creare scorte per l’inverno. E perciò affumicatura e salatura per carni e pesci, e trasformazione in formaggio, in particolare quello a pasta dura, per le eccedenze del latte. E qui arriviamo all’abbazia di Chiaravalle.
Le sue fortune produttive nascono con l’adozione del sistema delle marcite, pratum marcidum. Durante l’inverno, i terreni venivano mantenuti bagnati da acqua che scorrendo sulla superficie impediva che il manto del prato gelasse, continuando così a ossigenare le radici delle erbe. L’acqua proveniva da fontanili alimentati dal Vettabbia, e non scendeva sotto i 5 gradi. Questo sistema di acquicoltura, progressivamente affinato nei secoli, permetteva alle erbe di continuare a crescere anche d’inverno, facendo così aumentare il numero dei tagli e dunque la produzione del foraggio. Si costruirono grange sia come deposito di sementi e foraggio sia per ospitare gli animali, che a quel punto non avevano più bisogno del pascolo, e potevano essere allevati in stalla tutto l’anno, oltretutto senza disperdere prezioso letame nei campi. Concime che a quel punto poteva venir distribuito nei tempi e nei modi più utili alla fertilizzazione dei campi. Ne conseguirono due progressi fondamentali: l’aumento di aree dove venivano coltivati i cereali, sottratte ai prati un tempo riservati al pascolo, e l’aumento di produzione del latte, dovuto alla gran quantità di foraggio disponibile.
Ed eccoci all’invenzione del casu vetus, ossia del grana che, partendo da Chiaravalle, diverrà dapprima un fondamento della dieta milanese e lombarda, e oggi, come sappiamo, il formaggio più venduto al mondo e dunque elemento fondamentale della dieta di milioni di persone sparse nei vari continenti.
Ma torniamo alla dieta monastica che, adottata oggi, ci permetterebbe di restare in forma come e più di molte altre diete, essendo perfettamente bilanciata. Una dieta che, dal punto di vista cromatico, si basava sostanzialmente su due colori: il bianco del latte e dei suoi derivati, e il verde di erbe e verdure. Mancheranno fino al ‘900 inoltrato le “cose rare e ammirande del nuovo mondo”, ossia le piante commestibili americane importate da Cristoforo Colombo, esploratore e unificatore biologico del nostro pianeta: pomi di terra (le patate), mais, pomodori, peperoni e peperoncini, fagioli, cacao, zucche. E ananas, arachidi, fichi d’India…
A Chiaravalle crescevano invece cavoli, porri, lattughe, sedani, spinaci, finocchio, borragine, zafferano, ruta, scorzonera, salvia, menta, santoreggia, aglio, porri e molto prezzemolo – detto erborinna in dialetto milanese. Secondo il “Vocabolario Milanese-Italiano” di Francesco Cherubini, pubblicato nel 1814, l’erborinna è “erba notissima che si usa molto nelle vivande”, e “il nome dato a quest’erba debbe provenire dalla virtù diuretica di essa, quasi dir si volesse Erba orina, erba che promuove le urine !!!”. Infatti, il prezzemolo, oltre che erba utilizzata in cucina era usato in medicina per le sue virtù diuretiche. Il termine erborinna lo troviamo poi declinato nei formaggi, in Lombardia nel gorgonzola, che è appunto un formaggio erborinato, le cui striature di muffa tendente al verde ricordano il colore del prezzemolo. Sta di fatto che quest’erba dal forte aroma persistente e di un bel colore verde vivo, dagli orti monastici e dai refettori si è diffusa in tutta la cucina lombarda: la minestra di riso e prezzemolo, un grande classico. E poi sugli ossobuchi, nelle frittate, sul pesce, nei soffritti, sui funghi, in tutte le minestre e i minestroni, nella salsa verde, in polpette e involtini, sulle patate lesse e in innumerevoli altre preparazioni.
Stesso destino del grana, che da Chiaravalle è penetrato nella cucina milanese e padana entrando in ogni portata del pasto. Dalle scaglie degli aperitivi al condimento essenziale di pasta, riso, agnoli, gnocchi, minestroni (dove si utilizza anche la crosta del grana), frittate, torte salate, verdure, e negli ultimi anni persino come gusto del gelato.