CURIOSITÀ
“Chiaravalle e Antonia Pozzi.
In riva alla vita”
di Camilla Baresani
È di questi anni una rilettura della storia artistica e scientifica degli ultimi secoli che dia rilievo a importanti figure femminili rimaste nascoste nelle pieghe degli eventi.
Scienziate, scrittrici, pittrici, musiciste, fotografe: donne che i costumi delle epoche passate hanno marginalizzato, limitando la loro possibilità di esprimersi oppure non valorizzandone le opere, nascondendone i meriti dietro al ruolo di collaboratrici di colleghi uomini, lasciando che venissero dimenticate dalla storia.
È dunque in atto una ricerca di livello sia accademico sia divulgativo che ridà luce alle figure femminili nascoste, ed è proprio in questo filone di ricerca che davanti all’Abbazia di Chiaravalle sarebbe bello fosse apposta una stele in ricordo di Antonia Pozzi, poetessa e fotografa che proprio nei campi innevati antistanti l’Abbazia si tolse la vita. Era il 3 dicembre 1938. L’Abbazia, per questa smarrita ventiseienne aveva evidentemente un significato simbolico: nella sua geografia emotiva incarnava il ruolo di una purezza mistica cistercense che la ricongiungeva a Dio, nonostante l’atto di togliersi vita, grave peccato per la dottrina cattolica.
Dei suoi anni di attività letteraria, quasi un decennio tra il 1929 (Antonia era nata nel 1912) e il ‘38, restano circa 300 poesie, tutte pubblicate postume, uscite in prima edizione completa nel ’48, con la prestigiosa prefazione di Eugenio Montale, e tradotte poi in diverse lingue.
C’era stata un’edizione precedente di sole 91 poesie, curata dal padre di Antonia, conseguenza di una pesante opera di censura paterna. Di fatto, la continuazione dei motivi che avevano creato grande dolore nella figlia, e che proprio scrivendo versi aveva sublimato i divieti paterni. C’era, alla base del rapporto di Antonia con i genitori, molto benestanti e che da lei aspettavano un matrimonio adeguato sia socialmente sia economicamente, una serie di divieti e di riprovazioni: al ginnasio (il liceo Manzoni di Milano), Antonia si era innamorata, ricambiata, del professore di latino e greco, Antonio Cervi, osteggiato dalla famiglia in quanto di umili origini. Dunque niente agognato matrimonio, niente figli, niente casa comune. Nessuna realizzazione affettiva.
Coltissimo, Cervi lasciò Milano per Roma, dove ottenne la libera docenza di Letteratura greca, Storia della filosofia antica e Storia comparata delle lingue classiche. I due rimasero sempre in contatto epistolare. Dopo il liceo, durante gli anni dell’università (Lettere e filosofia), la poetessa frequenta i compagni di studi e comunque un ambiente di intellettuali che tracceranno la storia della filosofia e della poesia italiana novecentesca.
Si reinnamora, questa volta del filosofo Dino Formaggio, anche qui però senza successo. Troppa è la disparità sociale tra di loro. Quel vantaggio che la vede fare lunghi viaggi all’estero, imparare le lingue, prendere lezioni di sci da celebri alpinisti, che le permette di fotografare paesaggi alpini, abitare una villa settecentesca per le vacanze in montagna, frequentare la Scala, diviene una gabbia che la imprigiona in un destino di convenienze e obblighi sociali.
La produzione lirica di Antonia Pozzi non va tuttavia pensata come conseguenza di amori infelici, ma anche di profonde riflessioni filosofiche, di una spiccata sensibilità al contatto con la natura, e anche della cupezza degli anni della sua formazione. Dobbiamo considerare che nove mesi dopo il suo suicidio avrebbe avuto inizio la Seconda Guerra Mondiale, e dieci mesi più tardi l’Italia sarebbe entrata nel conflitto al fianco di Hitler. Mentre Antonia sprofondava nell’infelicità, durante l’ultimo anno di vita, le leggi razziali colpivano i suoi conoscenti, tra cui la famiglia del caro amico Paolo Treves, costretta a emigrare. In una famosa poesia del ‘36, Antonia sembra prefigurare non solo la fine delle speranze amorose, ma una fine collettiva. Questi i versi di “Periferia”:
Lampi di brace nella sera:
e stridono
due sigarette spente in una pozza
Fra lame d’acqua buia
non ha echi
il tuo ridere rosso:
apre misteri
di primitiva umanità.
Fra poco
urlerà la sirena della fabbrica:
curvi profili in corsa
schiuderanno
laceri varchi nella nebbia.
Oscure
masse di travi: e il peso
del silenzio tra case non finite
grava con noi
sulla fanghiglia,
ai piedi
dell’ultimo fanale.
Le liriche di Antonia Pozzi sono sempre autobiografiche e si rivolgono a un tu, a un fittizio interlocutore amichevole: hanno dunque un tono moderno, colloquiale. Sono in antitesi con la poesia allora di moda, quell’ermetismo che tutti abbiamo studiato a scuola. E sono profondamente contemporanee, hanno uno stile fluido, confidenziale, che continua a parlare ai giorni nostri.
Fu osteggiata dalla famiglia sul piano sentimentale ma anche osteggiata dagli amici per quanto riguarda la spinta poetica. Antonio Banfi ed Enzo Paci, il docente di filosofia più prestigioso di quegli anni e un suo coetaneo che diverrà uno dei più influenti filosofi italiani, le sconsigliavano di scrivere. Oppure la incoraggiavano a dedicarsi ai romanzi storici, mestiere che veniva ritenuto adatto alle donne, meno ambizioso. E lei invece no, fotografava e scriveva liriche. I versi che seguono sono tratti da “In riva alla vita”, scritta nel 1931:
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.
Dunque, un’esistenza che sentiva laterale, ferma, mentre accanto la vita scorreva senza che Antonia partecipasse a quel flusso.
Nella villa di famiglia, sotto i monti della Grigna, a Pasturo, Antonia scrisse la lettera d’addio ai genitori. E in quella villa oggi ha sede l’Archivio Pozzi: manoscritti, ricordi, oggetti, fotografie. Nel 1933, i versi di “Ricongiungimento”, versi di amore struggente, anticipavano quello che sarebbe successo. La fine, e anche il desiderio di un nuovo inizio, un ricongiungimento spirituale, chissà dove, chissà quando.
Se io capissi
Quel che vuol dire
– non vederti più –
credo che la mia vita
qui – finirebbe.
Ma per me la terra
è soltanto la zolla che calpesto
e l’altra
che calpesti tu:
il resto
è aria
in cui – zattere sciolte – navighiamo
a incontrarci.
Nel cielo limpido infatti
Sorgono a volte piccole nubi,
fili di lana
o piume – distanti –
e chi guarda di lì a pochi istanti
vede una nuvola sola
che si allontana.